STEFANO TACCONE. ARTEVANGELO. Gennaio 2024
Da lungo tempo la pittura di Michele D’Alterio, al di là dei vari materiali che possa adoperare e di come possa essere mutata nel corso degli anni, è descrivibile come una scrittura dell’anima, se non come un continuo processo di estrazione-traduzione di ciò che non è immediatamente visibile ai nostri occhi – e percepibile ai nostri sensi in generale -, eppure sappiamo esistente, benché diversamente esistente. Pur non essendo legittimo assimilarla ad uno specifico credo, nella sua produzione è possibile distinguere numerosi elementi anche riconducibili al cristianesimo – si veda Croce e sepolcro, ma anche Kermadec, con la croce scura che domina l’angolo in alto a sinistra di un paesaggio tutto giocato sui toni del blu, o la predilezione per il rosso che è ferita, sacrificio e quindi vita che si rinnova, nonché Gli adoratori del sole, capace di richiamare il «sole di giustizia» del Salmo 19, ma anche, per forme, linee e colore, il tipico ostensorio della liturgia cattolica.
Non di meno il tratto più cristiano della pittura di D’Alterio non si trova, a mio parere, in questo o quel titolo o in questo o quel simbolo, bensì nel forgiare una materia dello spirito che esprime una sua drammaticità senza essere disperazione, nel proporre l’invisibile non come una trascendenza compiuta, ma come un campo in cui forze diverse, quando non contrarie, si affrontano in una prospettiva teleologica che forse si può scorgere all’orizzonte, ma è ancora da venire. «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Romani 8, 22-23). Stefano Taccone
GIORGIO AGNISOLA. NASCENTE. Gennaio 2023
Anima e geometria si intrecciano nell’arte recente di Michele D’Alterio in un multiplo, suggestivo registro di piani e fili visibili e invisibili, in un complesso gioco (derivato da un meditato e sperimentale lavoro costruttivo) di riverberi e parvenze, accensioni cromatiche e riflessi metaforici, che restituiscono il senso di una singolare dimensione metascientifica, spirituale e misteriosa, dispiegata nel segreto evocativo della forma e dei materiali. Ne deriva un mondo fisicamente trascendente, affidato al rigore degli spartiti e alla poesia della luce.
Ciò che si palesa nelle opere recenti di Michele D’Alterio è la compresenza, assimilata intuitivamente in un medesimo progetto ideativo, di una struttura, peraltro derivante da un meditato e sperimentale lavoro costruttivo, ed un rilievo emozionale (affidato a riflessioni, trasparenze, giochi di luce, variegature di cromatismi etc.), con una duplice valenza spirituale e psichica, segnata da una tensione immersiva e centripeta, piuttosto che centrifuga nell’immagine. Sicché essa cattura l’occhio al suo interno, lo assorbe quasi, verso una dimensione di mistero e di ulteriorità. E’ quello di D’Alterio, almeno in parte, una sorta di spazialismo, ma più complesso, perché determinato non solo dal segno o dal gesto ma anche da un processo costruttivo, che presuppone una tecnologia espressiva oltre che una gestuale intuizione visiva.
GIORGIO AGNISOLA: MICHELE D’ALTERIO. Dicembre 2020
Ricerca visiva e tensione visionaria sono i cardini del percorso artistico di Michele D’Alterio.
Un percorso raffinato e silenzioso maturato nella serietà e nella certezza della personale vocazione. La ricerca: costante, meditata, non solo indirizzata alle forme, ma anche ai materiali e alle tecniche. E poi la tensione visionaria: la capacità di sviluppare un linguaggio astratto a partire da un’immagine interiore: sguardo e metafora, immaginazione e sogno. La sua produzione non è tuttavia propriamente onirica, né si affida ad una visione puramente fantastica.
È come se D’Alterio puntasse costantemente ad ampliare il suo orizzonte percettivo, penetrando un mondo altro in cui leggersi e ritrovarsi. Più di quanto a primo sguardo appaia, infatti, la sua arte è una sorta di diario, trascritto sul piano dell’immaginazione nei termini e negli spazi di un vero e proprio rispecchiamento psicologico. La sua visionarietà si inscrive in questo contesto, variando nel tempo, ma conservando come cifra identificativa del registro il connubio tra tecnologia espressiva e trascrizione di sé.
Se tutti o quasi gli stimoli della ricerca sono presenti prima del secondo decennio del duemila, è intorno al 2006 che la produzione D’Alterio assume un connotato più coerentemente innestato in filoni quasi tematici, pur restando variabile negli spazi più propriamente evocativi.
Il suo linguaggio è suggestivo. Interpreta un mondo surreale, quasi sempre distante, tanto da apparire talvolta primordiale, eppure carico sul piano emozionale, capace di procurare emozioni forti nello spettatore. Interessante è l’assetto compositivo delle opere e la loro pratica configurazione, il loro allestimento, la loro impaginazione. L’artista ricorre in genere a formati verticali e allungati o viceversa pronunciati in senso orizzontale. Predilige queste forme in cui una dimensione è assolutamente preponderante rispetto all’altra, essendo funzionale al discorso espressivo dell’opera. Rigore espositivo e sviluppo visionario si legano.
L’artista elabora una suggestiva base a rilievo, caratterizzata da una forte evidenza materica, che in seguito riveste con smalti cromaticamente forti, spessi, quasi pastosi. Non di rado fa ricorso ad artifici, pensati in funzione dell’effetto visivo, soprattutto quando intende evocare una superficie d’acqua o comunque una materia mobile. L’ambiente suggerito è fortemente naturalistico, di una natura tuttavia più immaginata che reale, evocata con un timbro surreale. Si tratta di paesaggi configurati al limite dell’astrazione, riletti all’interno di una cifra assolutamente metaforica: ambienti magmatici, eruzioni solenni, rivoli di lava che discendono lungo le falde di un cratere silenzioso, lingue di fuoco e d’argento, specchi d’acqua ardente ( come in Il fiume del cambiamento, Deserto lavico, Stromboli).
A questi paesaggi “preistorici” D’Alterio unisce, in questi anni, immagini più strutturate, in cui il dato espressionistico si confronta quello più mentale (come in Fluido inconscio, in Vasca, in La tempesta, e ancor più in L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo). Compaiono riquadri e finestre caratterizzati da assetti fortemente prospettici. Anche i colori si raggelano, assumono toni più freddi e metallici. Il riflesso emozionale è meno invasivo, più contenuto, più astratto.
Ad una tale atmosfera tra preistoria e futuro fa seguito nel 2017 un immaginario più intimistico. La prospettiva evocativa delle opere resta visionaria, ma acquista un timbro silenzioso, segnato da un blu dominante e profondo, evoca fondali marini, mondi acquatici, caratterizzati da un ritmo pacato, appena misterioso, e tuttavia delicato, in cui sembra di percepire la calma di sguardi sottesi e di movimenti lenti e prolungati, in cui tutto è scoperta, occhi, mistero, come in Onda e Verso il fondo. Non mancano, anche in questa fase, gli accenni ad una maggiore costruzione mentale, ma prevale in genere un segno più sensitivo, di visione ad occhi aperti.
Nell’anno successivo, il 2018, qualcosa sostanzialmente cambia. L’artista si concentra su di una ricerca più attenta dei materiali e del loro utilizzo con uno spartito più strutturato, pensato, almeno in prima istanza, in chiave visiva più che espressiva. Il fine non muta, la trascrizione di un sentire interno e visionario, di un avvertimento di tagli riflessivi e quasi sonori della forma, di avvertimenti pacati dell’ombra e della luce. Ma il registro è diverso, più sensibilmente sperimentale, elaborato a partire da veri e propri progetti e prove esecutive, anche in senso tecnologico.
L’artista si sofferma a calibrare gli spessori dei materiali, i loro riflessi interni ed esterni senza perdere di vista l’esito finale, ancora astratto e visionario. Ora punta con più attenzione agli aspetti pratici del lavoro. La cura della impaginazione, la stessa incorniciatura delle opere diventano funzionali allo sguardo conclusivo. E’ interessante come l’artista metta a punto tecniche semplici, facendo ricorso a materiali poveri e di uso comune, come fili di nailon o di ferro, plexiglass, polistirolo espanso, cartoni, materiali che vaglia lungamente nel loro sviluppo visivo.
Rispetto al passato è ora leggibile una maggiore evidenza astrattiva, una maggiore attenzione al processo simbolico dell’opera e forse ad una maggiore geometrizzazione del linguaggio.
Razionalità e rispecchiamento si legano in una ricerca più rigorosa, e al tempo stesso più aperta sul piano espressivo. L’artista indaga la luce di piani trasparenti e sovrapposti, conservando i segni naturali del materiale e ciò suggerisce anche nuovi riflessi psicologici, nuove suggestioni, come in alcune opere della serie “Il velo di Maya” o in Suggestioni stellari e Matematica Celeste. Compaiono nuovi indizi metaforici, come tessiture regolari di fili a rete o rigorosamente paralleli, incavi o rilievi che si prolungano in profondità, concentricamente e a varie altezze, oggetti geometrici posizionati ritmicamente in superficie.
Tutto ciò sembra assumere un valore emblematico nella produzione più recente, del 2019 e 2020. Alcuni assetti si affinano, si intensifica l’equilibrio tra riflessione ed autoriflessione, come nei bei lavori dal titolo Precipitazione, in cui il gioco dei piani emergenti dal fondo, nella variabilità delle tonalità cromatiche, è schermata da una tessitura verticale di fili di nailon che paiono evocare la caduta della pioggia. Tale artificio è presente anche in altri lavori e costituisce uno degli ingredienti visivi che l’artista adotta in questa fase di forte evidenza sperimentale. Ancora tuttavia il linguaggio resta legato ad una proiezione interna di sé e del proprio mondo. Ne è prova il lavoro che apre il recente catalogo online delle sue ultime opere dal titolo Io chi sono? In quell’albero trasparente che si frappone al gioco delle finestre si riconosce, come in un filtro psicologico, la storia di ciascuno di noi, la nostra costante ricerca di un senso, di valore, di destino.
Giorgio Agnisola
LA SENSIBILITA’ SURREALE DI MICHELE D’ALTERIO
Michele D’Alterio, esperto di grafica pubblicitaria e web design, non ha mai abbandonato la pittura, intesa come ripiegamento su se stesso e proiezione della propria intimità. Nelle sue recenti opere, in bilico tra figurazione e astrazione, il paesaggio naturale incarna i lineamenti dello spirito. Nelle fitte rughe del supporto plastico o cartaceo, nei tocchi di colore denso e materico s’intuiscono le pieghe dell’anima, che l’artista campano esterna e traduce nella forma del paesaggio. Con una sensibilità surreale, Michele D’Alterio tende a coniugare due attitudini opposte: da un lato l’esigenza di aggredire la tela con impeto nervoso per assecondare i suoi moti interiori, da un altro la volontà di stemperare le sue pulsioni nell’armonia del paesaggio naturale.
Nelle sue opere confluiscono reperti di vita quotidiana, quali sacchetti di plastica e frammenti di gomma, avulsi dal proprio contesto per assumere la dimensione di segni. I riverberi della vita urbana si coniugano a visioni oniriche, scenari senza tempo dove la profondità non è data dalla prospettiva tradizionale, bensì dal progressivo diluirsi della materia pittorica.Il formato verticale, ispirato alla pittura dell’estremo Oriente, suggerisce una tensione ascensionale. Le dimensioni della cornice, deliberatamente superiori a quelle del quadro, esprimono la volontà di non reprimere la tensione della scena, che idealmente si sviluppa oltre i confini della tavola.
Marco di Mauro
FOGLIANO, ARTE NATURAL-MENTE, 2008
L’arte di Michele D’Alterio appare tout de suite visionaria. Interpreta spazi naturali, in genere segnati da una tensione psicologica che distacca dalla realtà, apre scenari inquietanti e surreali.
L’opera presentata a Fogliano è una tavola rivestita da una sostanza lucida e pastosa. Sembra rappresentare il lago, la sua costa, i suoi alberi. Si tratta, in realtà, di un paesaggio immaginario. I cromatismi evocano un tramonto, la superficie dell’acqua è immobile, ma corruscata; l’aria è infuocata. Luci fantastiche provengono dall’alto; sventolano strane bandiere, o forse chiome di alberi. La stessa sagoma orizzontale dell’opera restituisce la sensazione di una natura traguardata come da una feritoia. L’opera rimanda al singolare registro dell’arte di D’Alterio, ai suoi temi preferiti: i crinali vulcanici, i fiumi d’argento, i laghi di silenzio siderale: una pittura che denuncia una natura misteriosa, talora apocalittica, collocata al di fuori dello spazio e del tempo.
Un taglio densamente metaforico può leggersi negli stessi procedimenti tecnici della produzione dell’artista casertano, in genere complessi. L’artista, peraltro grafico ed esperto di tecniche visive, utilizza materiali diversi che integra, come plastiche e gessi, che poi ricopre di una pittura variegatissima. L’opera appare infine una sorta di altorilievo, implica una percezione tridimensionale. L’attenzione ai cromatismi è scrupolosa.
I colori si adeguano al senso dell’opera, alla sua tensione emotiva. L’uso di superfici riflettenti conferisce ai lavori un che di metallico e artificiale e, sul piano psicologico, di straniante. Ne deriva un linguaggio suggestivo e magnetico, che riflette un avvertimento teso e allarmato dello spazio sensibile, ma anche visionario, come si accennava in principio, in qualche modo onirico.
Giorgio Agnisola
THE BORDER, MICHELE D’ALTERIO E ZORAN POPOSKI
Centro “Il Ramo d’Oro”, Napoli, 2007 Suggestivo, persino arrischiato questo confronto che Vincenzo Montella propone nella mostra The border, di cui sono protagonisti un artista macedone, Zoran Poposki, e un artista italiano, Michele D’Alterio. A primo sguardo infatti sembrerebbe non esservi raccordo tra le due esperienze espressive, quella di taglio surreale e concettuale di D’Alterio e quella più astratta e espressionistica di Poposki. In realtà i due stili esplorano due modalità differenti della tensione emotiva, ma sono segnate da una analoga dinamica psichica. L’artista macedone usa una energia gestuale e astratta, legata alla evocazione del colore ma anche al segno, entro una costruzione di piani che si dispongono a strati, da cui emergono forme non di rado figurative, in cui si notano interventi più razionali, frasi, scritte, sviluppi letterari, che l’artista sovrappone all’immagine, provocatoriamente. D’Alterio invece si muove in una regione più intima e turbata, in uno spazio interiore, in cui però ricompone un universo in apparenza realistico e tuttavia lontano dalla superficie del visibile, confinato nelle regioni profonde della psiche. Così le sue suggestioni visive, le sue superfici materiche, le sue tensioni simboliche, i suoi cromatismi intensi e visionari rimandano ad un mondo onirico e surreale: di un surrealismo tuttavia che non proviene dal sogno, ma è ricostruzione lucida, seppure passionalmente carica, sospesa tra elaborazione concettuale e spessore emotivo. L’arte di Michele D’Alterio si è sempre nutrita di densi rimandi simbolici, di atmosfere vigilate tra realtà e sogno, rese non solo sul piano espressivo, per ciò che l’immagine evoca emotivamente e psicologicamente, ma anche sul piano formale e concettuale. Anzi la proprietà del linguaggio dell’artista, fin dalle sue prime prove, di taglio surreale – spazi di un universo di forme fantastiche in cui il simbolo onirico è carico di indizi psicologici e poetici – sembra risiedere proprio in quel suo lavorare la materia con un orizzonte allusivo realistico, ma sotto la spinta di una intrinseca capacità visionaria, connessa con lo stesso disvelarsi suggestivo della materia, in quanto scenario tridimensionale di evocazioni riflesse nell’ inconscio. I suoi “paesaggi” non sono semplicemente surreali, non alludono solo ad una realtà turbata e fantastica, tutta interiore, confinata fuori dal tempo, ma hanno il timbro, vorrei dire il mistero e la magia di una dimensione dell’essere e del sentire nascosta e solenne, che si dispiega senza rumore, nel più assoluto silenzio. Forme evidenti anche nel loro rilievo materico si aprono a spazi tridimensionali, interiori, misteriosi, spesso inquietanti, sempre profondi. Anche l’aspetto più propriamente tecnologico dell’arte di D’Alterio è interessante: l’uso dei materiali, la loro sovrapposizione, la loro sperimentazione E solo in apparenza le cose più recenti, quelle della presente mostra, possiedono un taglio più concettuale, giocato sulla bivalenza, sul dualismo simbolico ed emotivo, di realtà contrapposte, il bianco e il nero, il bene e il male, il grande e il piccolo. Solo in apparenza cioè lo spazio assume connotati esterni, riconoscibili dalle allusioni dirette ad esempio ad una croce o a un tessuto cellulare. In realtà si tratta sempre di regioni interne della vita, di sguardi interiori, di spazi tramati nel silenzio di un universo colto e specchiato nel chiuso della coscienza sensibile. Deriva di qui il fascino delle sue opere, che tra l’altro conservano l’intensità anche tattile e lo splendore lucente della sua produzione più materica. L’arte si configura come viaggio intrapsichico, come attraversamento dell’anima. Dove appunto si coniugano senza fatica il vicino e il lontano, il presente e l’assente, il contingente e l’assoluto.
Giorgio Agnisola
MICHELE D’ALTERIO NON QUI, NON ORA
Libreria Guida Capua dal 23 dicembre al 15 gennaio 2006
Questa è un’arte in cui c’è una bivalenza molto forte, qualche volta anche molto stridente, tra questa dimensione di equilibrio, di ricerca di una razionalità, di dare un ordine alla propria esistenza e dall’altra di questa matericità così ridente, così forte.
In senso più psicologico evocherei l’immagine della feritoia; questa è una cosa interessante che forse potrebbe essere utile anche per spiegare degli ulteriori passaggi. Proprio questa preponderanza della verticalità sull’orizzontalità da’ l’idea di un mondo traguardato da una feritoia… si pensi proprio alla classica immagine medioevale… sicché (ed è questo il passaggio delicato ed interessante) la feritoia fa subito pensare ad una contrapposizione tra ciò che si vede e colui che guarda. Colui che guarda è al di qua della feritoia, ciò che si vede è al di là di essa, evidentemente. E che cos’è questo aldilà? Questo aldilà è il proprio mondo interiore, cioè una sorta quasi di traguardare del visto al di là di questo spazio chiuso, contenuto, nel quale però si riconosce, del quale si riconosce una appartenenza, in qualche modo.
Attraverso la feritoia si guarda la vita, la propria vita, la propria coscienza, il proprio mondo psicologico, con tutte le sue difficoltà, con tutti i suoi problemi, con tutte le sue rugosità e i suoi spazi immaginari e reali.
Queste visioni, come poi in tutta l’arte astratta in senso generale, sono sempre dei paesaggi interiori, sono sempre dei paesaggi dell’anima, sono sempre dei paesaggi, appunto, dell’invisibile che diventa visibile, e dunque questo traguardare da questa feritoia questo mondo che c’è oltre, questo mondo magmatico ma anche in qualche modo inquietante che ricorda spazi siderali… (dicevo recentemente, mentre mi trovavo nello studio di Michele, mi danno un’idea proprio di una Odissea nello spazio, di una dimensione lunare, di una dimensione cosmica) fanno capire in che modo esiste questa corrispondenza tra l’Io e l’Io che si rivela, che si vede. Tutto questo viene poi capovolto in qualche modo nell’opera Ragione e sentimento, laddove sembra che improvvisamente questa distanza fra questo mondo traguardato attraverso la feritoia e il mondo di colui che osserva non esiste più, e singolarmente quest’opera non è più un paesaggio, non ha la forma di una qualche riconoscibilità di un mondo esterno che si vede ma è quasi una sintesi visiva, diventa in qualche modo pura astrazione. Laddove esiste, come diceva Marco, ancora questa contrapposizione tra una parte più razionale e più spirituale e una parte più emotiva, una parte più materica appunto, più legata alla sensitività, ma tutto questo non ha più una distanza orizzontale ma diventa un’unica composizione… c’è come un accordo, come se rasserenato l’ambiente, rasserenata la nostra capacità di percepire, noi tendiamo ad una sintesi, e questo spiega tra l’altro tantissima arte astratta anche in questa chiave, cioè come soluzione di sintesi di un processo spesso biunivoco, bivalente, contrapposto, contraddittorio, che poi si riassume in forme che sono una sintesi che è nella persona ma è anche al di là della persona, cioè simbolo un po’ per tutti.
In questi passaggi ci sono una serie di compresenze: c’è per esempio l’aspetto materico, che è estremamente interessante… questo materiale utilizzato… carta argentata, la plastica… sembrano più sculture che pitture, da un certo punto di vista. C’è questo elemento materico che serve in alcuni lavori per coprire, ma in altri per diventare anche un rilievo, per dialogare fittamente con l’osservatore.
Spesso viene fatta la distinzione fra pittura e scultura… la pittura è un oggetto, la scultura ci invade… noi apparteniamo allo spazio della scultura, e la scultura diventa dialogante con noi non come oggetto distante da chiudere, da conchiudere in uno sguardo, ma come oggetto che interessa anche la nostra percezione tattile, sensitiva, quindi diventa effettivamente come spazio che ci avvolge.
Spesso è interessante notare come la scultura può avere anche una finitezza, può essere un oggetto finito, ma in realtà non è mai così, perché siamo noi che lo viviamo finito… la scultura spesso ci invade nel vero senso della parola, noi ci giriamo intorno ma è la scultura che gira intorno a noi.
Quindi, questo elemento materico che rende l’immagine al tempo stesso pittura e scultura, l’uso di materiali diversi, come ad esempio il plexiglas di “It’s raining”, quasi a voler creare una sorta di scenografia, o degli ambienti, mi sembrano estremamente interessanti.
Inoltre, trovo interessante l’alternarsi di colori che sono quasi sempre calibrati come due opposti e che danno il senso del risalto profondo che l’artista vuole dare al segno, al segno che incide o al segno che rileva.
Giorgio Agnisola
Vorrei esordire con delle riflessioni sulla pittura. A volte la pittura non rappresenta ciò che si vede… diceva Paul Klee “l’arte non rappresenta il visibile ma rende visibile ciò che non sempre è visibile”. Guardando i paesaggi di Michele D’Alterio io vedo due piani di lettura diversi: il primo piano è il paesaggio naturale, un secondo piano di lettura è un paesaggio interiore, tutto psicologico… è come se nelle rughe del supporto plastico, o cartaceo, si potessero leggere quelle che sono le pieghe dell’anima, le pieghe interiori, i riflessi dei propri moti interiori, e allora ecco che non è più un paesaggio naturale ma un paesaggio completamente psicologico, un paesaggio mentale.
E’ significativo anche il fatto che sia stato usato quasi sempre un formato verticale, non orizzontale. Il paesaggio naturale, secondo una visione bioculare, una visione umana, è orizzontale, cioè segue la linea d’orizzonte… un formato verticale è innaturale, è irreale, perché non segue la linea d’orizzonte ma si sviluppa in verticale e, tra l’altro, proprio questo sviluppo verticale crea uno slancio, una sensazione di ascensione verso un aldilà… ecco perché il titolo: “Non qui, non ora”… quindi la tendenza verso un oltre psicologico. Formato verticale che tra l’altro richiama la pittura dell’estremo Oriente – che poi è una pittura densa di spiritualità e densa di significati ulteriori che rimandano appunto ad un aldilà, ad un altrove – e quindi ecco che il formato verticale ha una sua ragione specifica, una sua ragione d’essere che non è soltanto una motivazione estetica.
Un’altra contraddizione si nota nella pittura di Michele D’Alterio, cioè da un lato la volontà di esprimere con foga, con irruenza, quasi con violenza i propri umori, le proprie pulsioni, i propri stati d’animo, con una pittura impulsiva, materica, informale e poi dall’altro la volontà di stemperare questi umori, questi sentimenti forti, questa scarica sanguigna nelle forme morbide, delicate, armoniche del paesaggio… e questo lo vedo anche nella sua personalità… lo conosco da diversi anni, lui ha dei forti slanci emotivi, però allo stesso tempo è una persona estremamente pacata, molto ponderata, molto tranquilla. Allora ecco, nelle sue opere vedo questa stessa contraddizione: da un lato dei forti slanci, dei forti impulsi interiori e dall’altro la volontà estrema di placare questi impulsi per raggiungere un equilibrio – almeno esteriormente. Ecco, questi sono due aspetti che mi hanno colpito ed è significativo che nelle opere recentissime, in particolare “Ragione e sentimento”, abbia ormai abbandonato completamente le forme del paesaggio, probabilmente per un’espressione ancora più diretta, più immediata e anche più sintetica, più icastica, dei propri contenuti, del proprio sentire. In quest’opera si vedono ancora queste due caratteristiche che convivono nella sua personalità: da un lato le linee rette, sottili, tracciate a matita che quindi esprimono il lato riflessivo, il lato pacato, sereno del suo carattere e dall’altro quella parte sanguigna, torbida, materica, informale, così pulsante, che invece esprime i suoi moti interiori, la sua volontà, i suoi slanci; e quindi ecco che vediamo la parte più forte del suo carattere che viene compressa e placata da questa parte più serena, più razionale.
Un altro aspetto ancora che mi colpisce in Michele è la ricerca sui materiali. Ogni volta che vedo suoi nuovi lavori ci sono nuove ricerche. Ha sperimentato tecniche già utilizzate da Burri, Tapiès e tende sempre alla ricerca di nuovi effetti pittorici con materiali di risulta, per esempio la plastica dei sacchetti dell’immondizia, che riutilizza riciclata con un effetto pittorico molto suggestivo.
Marco Di Mauro