Artevangelo
Napoli, venerdì 24 gennaio 2024, ore 19,00 Frame Ars Artes, Corso Vittorio Emanuele, 525
VI Incontro di ArtEvangelo tra arte e cristianesimo

Clarissa Baldassarri – Michele D’Alterio

La registrazione dell’incontro
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Con l’anno nuovo, continuano gli Incontri di ArtEvangelo, una iniziativa di Salvatore Manzi e Stefano Taccone. Il progetto degli Incontri si affianca, ormai da più di un anno, alla rivista trimestrale di quattro pagine, nata all’inizio del 2017, intendendo coinvolgere di volta in volta artisti già comparsi sulle pagine della rivista – oppure non ancora comparsi -, ma anche storici dell’arte e studiosi di varia formazione, chiamati ad un libero confronto intorno alla questione del rapporto tra arte – specie visiva, ma non solo; specie contemporanea ma non solo – e cristianesimo.

Che cos’è il reale? Ciò che immediatamente si tocca, si assapora e sta davanti ai nostri occhi? Oppure qualcosa di più complesso, che comprende tutta una sfera del non meglio identificato, del non immediatamente sensibile, eppure in qualche modo noto alla nostra coscienza più profonda? Con l’avvento del cristianesimo – assumendo come valida una spiegazione che sa evidentemente di hegelismo -, il principio di razionalità come finitezza tipica del mondo greco classico verrebbe rimpiazzato da una nuova condizione di perenne, talvolta lacerante, precarietà. L’uomo è stato «fatto poco meno degli angeli» (Salmi 8,6), ma è proprio quel “poco meno” a fondare la sua inquietudine. Creatura destinata alla beatitudine celeste, è costretta temporaneamente a vivere in esilio.

Clarissa Baldassarri non lascia trapelare le sue convinzioni religiose. Potrebbe essere cristiana, ma anche agnostica o atea. Tuttavia, anche a prescindere di certi oggetti, come una Bibbia o un confessionale, che compaiono nelle sue opere, sembra raccontare, sia pure senza alcuna accezione tragica, di un disequilibrio che può assolutamente assimilarsi alla linea bimillenaria del sentire cristiano. In particolare, in quanto artista visiva, ella sembra introiettare tali contraddizioni nella sua pratica precipua, sperimentando la sospensione costante tra la fisicità dei suoi strumenti e la necessità di trascenderli; tra le loro potenzialità enormi e la loro irriducibile inadeguatezza di fronte all’intuizione dell’infinito.

Non resta che vivere fino in fondo nel solco di questo dissidio, nella coscienza che probabilmente non è superabile, finché si rimane in questa dimensione, ma anche nella convinzione che negare la sete di qualcosa che non è pienamente raggiungibile sarebbe ancor meno sopportabile della frustrazione prodotta dal non raggiungerla avendoci provato.


 
Da lungo tempo la pittura di Michele D’Alterio, al di là dei vari materiali che possa adoperare e di come possa essere mutata nel corso degli anni, è descrivibile come una scrittura dell’anima, se non come un continuo processo di estrazione-traduzione di ciò che non è immediatamente visibile ai nostri occhi – e percepibile ai nostri sensi in generale -, eppure sappiamo esistente, benché diversamente esistente. Pur non essendo legittimo assimilarla ad uno specifico credo, nella sua produzione è possibile distinguere numerosi elementi anche riconducibili al cristianesimo – si veda Croce e sepolcro, ma anche Kermadec, con la croce scura che domina l’angolo in alto a sinistra di un paesaggio tutto giocato sui toni del blu, o la predilezione per il rosso che è ferita, sacrificio e quindi vita che si rinnova, nonché Gli adoratori del sole, capace di richiamare il «sole di giustizia» del Salmo 19, ma anche, per forme, linee e colore, il tipico ostensorio della liturgia cattolica. Non di meno il tratto più cristiano della pittura di D’Alterio non si trova, a mio parere, in questo o quel titolo o in questo o quel simbolo, bensì nel forgiare una materia dello spirito che esprime una sua drammaticità senza essere disperazione, nel proporre l’invisibile non come una trascendenza compiuta, ma come un campo in cui forze diverse, quando non contrarie, si affrontano in una prospettiva teleologica che forse si può scorgere all’orizzonte, ma è ancora da venire. «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Romani 8, 22-23).

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